I contributi di amici e professionisti che hanno conosciuto e lavorato con Marco Pesaresi, raccolti in una video intervista, realizzata in occasione della mostra “Underground (Revisited)”
Passione, amore, futuro, sogni, mondo, umanità, paure, sesso, visioni, dolore. Sono solo alcune delle parole che hanno affollato gli anni che ho condiviso con Marco. Anni giovani e ribelli, incerti per loro stessa natura. Marco usava il reportage per dare forma ai suoi demoni. Gli andava incontro e li guardava in faccia. Nani, storpi, prostitute, drogati e folli, accattoni e barboni, un’umanità senza speranza di riscatto. Tutto era iniziato con la metropolitana di Londra per poi diventare quel giro del mondo esagerato che lo avrebbe consacrato sulla scena fotografica internazionale. Un tour de force che dopo ogni viaggio decidevamo di finire lì, senza altre tappe perché ogni città sotterranea lo consumava e esaltava allo stesso tempo. Empatico e totale, sapeva abitare altri luoghi e altre culture, parlare o tacere senza ostacoli di lingua. Dono raro tra i fotografi. A Mosca aveva camminato per ore, su e giù per le scale mobili del metrò, senza capire la segnaletica in cirillico: era stato aggredito da un gruppo di skinheads e si era spaventato per la vastità della città. A Tokyo era andata anche peggio. Aveva telefonato nel cuore della notte, non tenendo conto del fuso orario, arrabbiato per l’impossibilità di muoversi liberamente non capendo la lingua. Nonostante tutto, aveva fatto le fotografie più poetiche. Una di queste mi segue da più di quindici anni in ogni trasloco: una bambina col palloncino che copre il viso di sua madre. La dedica è un cuore, disegnato a mano da Marco. Io l’ho sempre tradotta: ti voglio bene. A Calcutta aveva preso una brutta infezione intestinale, aveva patito il caldo e le folle. A New York, finalmente, aveva trovato una metropolitana che usciva in superficie e il piacere nel fare questo progetto: si era concentrato sugli esterni, romanticissimi con la neve. Se ci penso bene, tutta la fotografia di Underground è romantica. Lo sono i clown, i giovani che si baciano, le donne e i bambini ma lo sono anche i disagiati e gli homeless. Nei suoi viaggi tra l’umanità dolente Marco cercava la bellezza dell’anima, l’intensità degli sguardi e il calore dell’incontro. Renata Ferri, Milano, 13 ottobre 2011
Sentire la fotografia addosso era il modo consueto con il quale il fotografo Marco Pesaresi raccontava il suo destinale approdo alla professione di reporter e al tempo stesso stare addosso alla fotografia è il motto sotteso al lavoro di ogni fotografo di reportage, il muoversi per rincorrere le immagini e il registrare il qui-e-ora di un evento determinante. Molti dei progetti fotografici di Marco Pesaresi nascono da assignment, richieste di agenzia per pubblicazioni, ma altrettante immagini di grande forza estetica ed emotiva Marco le ha prodotte in momenti estranei al lavoro commissionato, non appena smetteva gli abiti del fotografo professionista. Interessato agli individui singoli, solitari nel loro abitare i luoghi, passa poi a cogliere il paesaggio con la stessa intensità e poesia delle figure ambientate. La stessa attenzione la dedica alle coppie di persone – significativa è la serie di baci colti in ogni parte del mondo – ma più sottilmente sembra cercare un principio di somiglianza nell’accostamento casuale di due figure. Si potrebbe pensare che tutti sono lì per lui, pronti a essere fotografati. Silvia Camporesi, Savignano sul Rubicone, 2016
“Non voglio leggere” – scrive nelle prime pagine del suo diario – “desidero entrare completamente nel viaggio”. E ancora: “ Non posso andare ovunque”. Marco Pesaresi, chi lo ha conosciuto lo sa, e chi no lo capisce dalle fotografie che ha fatto, è stato un viaggiatore di questa razza: un avventuriero dei pensieri e degli incontri prima ancora che dei luoghi. Quelli che ha scelto, quelli lontani dalla sua casa, erano spesso inospitali e fastidiosi. Luoghi di passaggio, di transizione, basta ricordare “Underground”. Luoghi in cui si scopre l’umanità senza distinzioni. Questo è il “materiale” che interessava a Marco e la Transiberiana non fa eccezione. Su questi treni si viaggia per lavoro o per andare a trovare amici e parenti che vivono a migliaia di chilometri di distanza. Spesso è un disagio e un fastidio avventurarsi nei vagoni in cui si mangia, si dorme e ci si confida con estranei anche per giorni interi. Su questi treni si è elaborata l’ umanità del popolo Russo, la sua anima. L’anima che Marco vuole tanto incontrare. Palpita in queste immagini il desiderio di contatto e di relazione, nonostante le difficoltà di comunicazione. Quasi ogni immagine è il frutto di un incontro, il tentativo di dialogo e di comprensione individuale e condivisa. Vi è complicità, seppure questa scaturisca anche solo per pochi secondi. Marco non si nasconde, non ruba le foto. I suoi passi, i suoi movimenti non sono silenziosi – lo sono forse i suoi pensieri e il suo desiderio di capire – ma si può quasi immaginare il suo sorriso fragoroso quando immortala la ragazza che mostra il seno e lo scatto repentino per catturare la ragazza bionda che vende lampadari sulla banchina del treno. In queste immagini si ritrovano molte delle cose che si amano della fotografia di Marco e si dovrebbero ricercare in tutta la fotografia. Queste immagini sono incontri prima di essere racconti, sono splendidi esempi della fotografia sincera e onesta che non ha la presunzione di spiegare ma vuole bensì prima capire. Signori passeggeri, qui la terra finisce, ma non ascoltate il messaggio degli altoparlanti. Svegliatevi dal sogno, svegliatevi da un viaggio per cominciarne un altro. Ci sarà sempre un altro treno. La destinazione in fondo non è importante. “Il viaggio è il viaggiatore” – scriveva Fernando Pessoa – “ Quello che vediamo, non è ciò che guardiamo, ma ciò che siamo”. Un viaggio è il nostro tempo e la fotografia in fondo non è altro che un modo per catturare, uniti, il tempo e lo spazio. I fantasmi e la memoria preservati per sempre dalla luce. Marco questo lo sapeva bene. Davide Monteleone, agosto 2017
Marco Pesaresi era il risultato armonico dell’imperfezione. I suoi pensieri laterali e i suoi silenzi sapevano riempire il cuore di chi gli stava accanto. Il suo sguardo ci ha portato ovunque nel mondo, raccontandoci storie di culture, città, individui e “quantità umana”. Denis Curti, Direttore Artistico Si FEST, aprile 2021
Marco mi mostrava i provini dei suoi progetti e ricordo, ogni volta, il rinnovarsi del mio stupore nell’osservare l’intensità espressiva delle persone ritratte, indagate nell’intimo anche solo per un attimo, uno sfuggente incrocio di sguardi. Ancora oggi, chi guarda quelle fotografie resta sconcertato dalla capacità di previsione e osservazione che aveva Marco, dalla sua straordinaria lungimiranza. Ogni fotografia appare come l’inizio di una storia, l’inizio di un viaggio nella profondità dell’essere umano: l’abbraccio fugace di due innamorati, lo sguardo di chi frettolosamente cammina lungo le banchine, l’andirivieni meccanico delle persone, l’abbandono di un momento di sconforto, di dolore, di disperazione o di relativa tranquillità, il volto assorto in un pensiero imperscrutabile. Marco coinvolgeva i soggetti delle sue fotografie con uno scambio di occhiate, con uno sguardo che trasmetteva comprensione, vicinanza, empatia e non conosceva derisione o giudizio. Mario Beltrambini, Presidente Circolo Fotografico Cultura e Immagine e Vice Presidente Associazione Savignano Immagini, aprile 2021
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